Mescolare fiction e realtà, realtà e fiction. Ma attenzione: invertendo l'ordine dei fattori il prodotto cambia, e non di poco. Calare la finzione nella realtà è arte codificata dalla fine dell'Ottocento: Naturalismo e Verismo partono dall'invenzione di casi ispirati al "vero" per vestirli di contesti realistici. Calare, al contrario, la realtà nella fiction è modello e cronaca dei nostri giorni, diventa contorto groviglio di comunicazione, fino alla distorsione insita nei reality. Un inestricabile intreccio di accaduto e immaginato, verità e menzogna, inquina e al contempo getta nuova luce sull'attendibilità di ogni evento: politica, cronaca bianca e nera.
Da questa consapevolezza muove Gianpiero Borgia, regista della nuova produzione della verghiana Cavalleria rusticana, appunto testo chiave del Verismo, che il 30 novembre aprirà la stagione del Teatro Stabile di Catania, nella storica sala intitolata proprio all'autore di altri capisaldi come I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. Tre settimane di programmazione fino al 22 dicembre. Nelle parti principali nomi di spicco del panorama teatrale e del grande e piccolo schermo. Turiddu è David Coco, protagonista di importanti produzioni di prosa, originali televisivi e film come Segreti di stato di Paolo Benvenuti e L'uomo di vetro di Stefano Incerti. Santuzza è affidata a Caterina Misasi, nel ruolo di Alfio agisce Giovanni Guardiano, in quello di Lola c'è Claudia Potenza: attori noti per la partecipazione a seguitissime serie tv (Un medico in famiglia, Il commissario Montalbano, Distretto di Polizia, Ris).
Se Cavalleria è una tragedia della gelosia, l'allestimento richiama volutamente la ricostruzione della "scena del crimine" alla maniera dei processi mediatici, mimati in tv intorno ai modellini dello chalet di Cogne, del villino di Garlasco o del garage di Avetrana. L'ambientazione originaria del dramma è trasposta ai nostri giorni, nella piazza del degradato e tormentato quartiere catanese di Librino, come suggerisce esplicitamente le "architetture di scena" in bianco e nero firmate da Alvisi-Kirimoto e accesse dai costumi rosso-passione disegnati da Giuseppe Andolfo: un clima di violenza annunciata, sottolineata dal "panorama sonoro" creato da Papaceccio MMC & Cespo Santalucia, i movimenti costruiti dalla coreografa Donatella Capraro, le luci di Franco Buzzanca.
Aliena anche dalle suggestioni melodrammatiche dell'opera di Mascagni, la rilettura di Gianpiero Borgia scava piuttosto sotto la superficie dell'oggettività verista, strizzando l'occhio al linguaggio documentaristico di maestri del cinema come Lars von Trier e Ken Loach. E ancora alludendo - vista la trama delittuosa - a serie tv come CSI, Cold Case, NCIS.
«Tradire Verga - evidenzia Borgia - per essergli paradossalmente più fedeli. Quella connotazione folcloristica, che il pubblico avvertì subito nel fulmineo atto unico, era infatti estranea all'estetica dello scrittore catanese. La sua terra, la piazza, la processione, entravano nel quadro dipinto al "vero" e tuttavia non venivano e non vengono così percepiti fuori dall'Isola. Da qui la necessità del "tradimento", al fine di rendere palese il portato universale del mondo interiore dell'autore, eliminando la sovrastruttura di una certa Sicilia, gli uomini tutti con le coppole, le donne avvolte in manti neri, la retorica di chitarra e mandolini. La fedeltà sta invece nel rispettare il procedimento: immergere la fiction nella realtà e non viceversa».
Fare, insomma, il contrario di quanto succede continuamente nei martellanti "processi" mediatici. «Processi spettacolo - chiarisce Borgia - laddove al riscontro dei dati si sovrappongono interventi su interventi, ipotesi su ipotesi, che altro non sono che fiction. Assassini e vittime finiscono per essere personaggi, più o meno inconsapevoli, di una cronaca che diventa reality. Un limbo dove gli "attori" di vicende vere subiscono la pressione dei media, o addirittura li strumentalizzano».
Proprio a questi moduli, alla loro "finta" rappresentazione di un delitto reale, si rapporta l'allestimento inaugurale del cartellone etneo. I caratteri verghiani diventano sagome astratte che sembrano abitare la miniatura delle scene del crimine. Obiettivo: decriptare la finzione, rappresentare - proprio come Verga voleva - l'orrida banalità quotidiana del delitto.