Lo straodinario saggio romanzato del semiologo francese diventa, grazie a Rita Cirio, un testo teatrale per la raffinata regia di Piero Maccarinelli.
Una immagine in
bianco e nero, una posa un po’ obliqua, laterale, disequilibrata ma fluida e
piena, assolutamente naturale. Roland Barthes campeggia così sulla nuda scena
del Teatro Musco e la sua voce serena, in sottofondo, scioglie il buio che
l’avvolge prima che i suoi “Frammenti di un discorso amoroso”, con la
drammaturgia e la traduzione di Rita Cirio, esordio della rassegna NuovoTeatro
dello Stabile, illuminino il senso e le categorie dell’Innamorato lungo una
ventina di sequenze. “Volevo cercare di descrivere quella specie di disordine,
cioè di assenza di inizio, di fine di senso, quella specie di trasporto, di
accecamento e di monologo interiore dell’innamorato”. Così Barthes stesso
confessava nel corso di una intervista il ‘romanzesco’ celato nei suoi “Fragments”.
Teatro di parola, sì ma narrativamente e “drammaticamente”
connotato: è quel metodo che lo stesso Barthes indicava nella premessa ai “Fragments”,
un criterio cioè che “rinuncia agli esempi e si basa unicamente sull’azione
di un linguaggio immediato (niente metalinguaggio)” e che l’accurata regia
di Piero Maccarinelli ha fatto proprio; nessuna concessione all’azione se non
quella interiore. La scena - così come il testo - è un “brainstorming”
modulato sul tema Amore: allude, evoca, rammenta. E perciò la parola, questa
“labile sostanza chimica” diventa gli attori, veri propri “tipi”,
evocati/soprannominati dal Professore-scrittore – il maturo e sornione
Pelleas; Marquis, più cinico e concreto; Werther infine, contrastata indole
romantica - puro teatro essi stessi ma al contempo abitati da una levità densa
e tutta umana: il “teatrino” dell’Attesa per esempio, è davvero tale, con
Marquis e Pelleas a interpretare i tre “atti” del tumulto d’angoscia, tra
il serio e l’autoironico (Lorenzo Amato, Davide Sebasti e Luca Bastianello
offrono una prova più che convincente). Insieme al Professore (l’aderente
Massimo De Francovich) avviano la riflessione, si scambiano opinioni ma non
s’incrociano mai: la solitudine (dell’evento amoroso) li isola. Li
riuniscono appena le immagini, i luoghi che la contaminazione multimediale
propone a commento. E la scena apre varchi, le precise oscillazioni delle
aperture offrendosi come incrinature/letture, si arricchiscono delle note più
varie - da Schubert e Piaf passando per Schoemberg - di suggestive immagini da
Doisneau a Klinger, da Friederich a quelle dell’infanzia di Barthes stesso,
lungo una rappresentazione che
lungi dall’essere raffinatissimo esercizio di stile (quella che nel testo è
la “jouissance de l’ècriture”) diventa atipica e stratificata
ricognizione, abbecedario in forma di frammento per aggomitolare le incerte
geografie d’Amore. Eppure l’amore non ha luogo, e non ha struttura piuttosto
infinite opzioni e lo schermo che offre tre finali possibili e
cinematograficamente codificati – Casablanca, Via col vento, Vacanze romane
– non fa che accennare, che aprire porte ulteriori. Il discorso d’Amore non
finisce; è un sistema entropico: la scena si chiude ma si affacciano gli
interrogativi anche mentre scorrono mute i fotogrammi di “Rue des Ecoles”
dove il filosofo francese travolto da un auto, trovò improvvisa la morte.