Che sapore ha il lunedì senza la domenica? E la quaresima senza carnevale? C’è mancato, quest’anno, il carnevale. Più di qualunque altra festa. C’è mancata l’allegria, la gioia, la spensieratezza, la musica, la danza. Ci sono mancate le maschere, le sfilate, i gruppi in costume, i carri scenografici. C’è mancata la città nella gioia. Soprattutto perché viviamo ancora un tempo carico di paura, di silenzio, di vuoto, di solitudine, e di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato. Carnevale è un giorno della nostra infanzia, della nostra innocenza. Carnevale è identità e cultura, folclore e memoria, tradizione e festa.
Ma carnevale, alle origini, aveva una connotazione sacra, una condizione di sacralità, una dimensione celebrativa. In una società bigotta, chiusa, ancestrale, dominata dal potere civile ed ecclesiastico, dallo Stato e dalla Chiesa, com’era la società siciliana del ‘600, del ‘700, il carnevale rappresentava l’unica valvola di sfogo, l’unica via d’uscita, l’unica evasione consentita alla società dell’epoca, l’unica modo di vivere pienamente, seppur limitata nel tempo, una condizione di libertà, di liberazione; era vissuto come una divagazione, una trasgressione ai costumi, agli usi, alla moda del tempo. Quasi come una rivolta sociale, un sovvertimento culturale. Il carnevale era un tempo sacro, aspettato, preparato, sognato e vissuto intensamente dagli uomini e dalle donne del passato.
Era un tempo privilegiato di libertà, e quasi di irresponsabilità, prima di entrare nel periodo buio, triste, della quaresima, nel periodo della penitenza, dei divieti, della proibizione, della confessione, della preghiera. E appunto per questo il carnevale aveva una dimensione di sacralità che oggi è scomparsa.
Tutto iniziava a metà gennaio, dopo giorno 11, in ricordo del terribile terremoto del 1693 che aveva distrutto il Val di Noto. E in tutti i paesi di Sicilia si viveva intensamente la preparazione. A Modica c’era il “giovedì do’ zuppiddu” (forse in riferimento al diavolo, o ad un vecchio zoppo), poi quello “delle comari”, (dove “vecchi dissapori, liti e incomprensioni venivano simbolicamente cancellati nella cenere”) e poi, infine, il giovedì grasso con il quale si entrava nei giorni clou della festa più allegra dell’anno.
Ed era una esplosione di gioia, di condivisione, di scherzi, di incontro, di accoglienza, soprattutto a tavola, con pasta ccu cincu puttusa, carne di maiale, salsiccia, dolci, vino. E i miniminagghi, ‘nnivinaggi, sciogli lingue, per lo più licenziose, crasse, un po’ triviali, con evidenti equivoci e doppi sensi, che strappavano risate tra donne e uomini del quartiere. Che esaltavano la carnalità, la sensualità, la giovinezza, la voglia di vivere e di divertirsi. Poi c’erano i travestimenti, bizzarri, stravaganti, variopinti, sempre licenziosi, per prendere in giro gli usi e i costumi, il senso del pudore, il potere civile, la religione.
E poi seguivano i balli dei mascherati in piazza, con il dolce bisbiglio delle “babbalute”, con lustrine, paillettes, tanta allegria e tanta seduzione. Le ragazze in dominò sceglievano con chi ballare, circondandosi da un’aria di mistero per non farsi riconoscere. Si scherzava, con semplice maliziosità, alle spalle di inconsapevoli ragazzi, ma nascevano anche nuovi amori. Allo scoccare della mezzanotte poi le “cenerentole” si mettevano in fuga tra le vie del paese, badando bene di non essere seguite. Quanti ricordi, quanta nostalgia! Chissà quali misteri, quali segreti nascondevano quelle mascherine, “che distribuivano a destra e manca la tenera magia degli occhi”. Ah, gli occhi! Ma,… meglio fermarci agli occhi…